giovedì 22 ottobre 2009

il Laboratorio di studi femministi “Annarita Simeone” Sguardi sulle differenze

presenta:


venerdì 30 ottobre 2009, ore 16.00

DIECI ANNI DI LABORATORIO

proiezione del documentario

IL CORPO DELLE DONNE

di Lorella Zanardo

con la partecipazione di Cristina Comencini



intervengono:

Pina Maturani (presidente del Consiglio provinciale)

Elisabetta Vezzosi (Società italiana delle storiche)

Eleonora Carinci (laboratorio Sguardi sulle differenze)


modera: Fabrizia Giuliani


aula Odeion, edificio ex facoltà di Lettere

Università La Sapienza

piazzale Aldo Moro, 5 - Roma





Calendario 2009-2010

LE ALTRE, GLI ALTRI.

SGUARDI SULLE DIFFERENZE

http://www.sguardisulledifferenze.org


23-24 novembre 2009

CHE GENERE DI LINGUA?

IL SESSISMO E IL POTERE DISCRIMINATORIO DELLE PAROLE

convegno



18 dicembre 2009

GENERE E SPAZIO VISIVO



22 gennaio 2010

DUE VOLTE GENITORI

un documentario sull’essere genitori di omosessuali



19 marzo 2010

GENERE E NARRAZIONI POSTCOLONIALI



23 aprile 2010

SPIVAK: LA SUBALTERNA PUÒ PARLARE?



21 maggio 2010

POLITICA, MEDIA, ATTUALITÀ: DOV’È LA VOCE DELLE DONNE?

tavola rotonda

lunedì 28 settembre 2009

Sesso e politica nel postpatriarcato




Artcock

Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Grazia Zuffa


Pubblichiamo il testo di convocazione di un incontro nazionale che si terrà il 10 ottobre alla Casa Internazionale delle donne di Roma (Via San Francesco di Sales 1, h. 10). L’incontro è pubblico e la partecipazione è aperta a donne e uomini interessate/i.

Lo scambio tra sesso, potere e denaro, nel caso-Berlusconi, parla del degrado della cosa pubblica. Dell’uso privato delle istituzioni e del potere. Dell’asservimento dell’informazione - non tutta, ma la maggior parte -, con conseguente aggressione ai pochi spazi di libertà e di critica.
Ma resta oscurato, nella rappresentazione che ne è stata data, quello che è il cuore della vicenda: la sessualità maschile e il rapporto con le donne di un uomo di potere. Ci troviamo di fronte a una sessualità e a un potere maschili che si esercitano su donne ridotte a corpi rifatti, per essere oggetti compiacenti di consumo. Nell’harem, a pagamento o meno, di Berlusconi la virilità è messa in scena come protesi del mito del capo. E le donne sono disponibili, perché subalterne a quella messa in scena. O al più interessate a uno scambio. Siamo all’eterno ritorno dei ruoli tradizionali? L’uomo al centro, da vero protagonista, le donne intorno, interscambiabili, accomunate e confuse in una stessa immagine? Noi pensiamo di no.
La vicenda sessuale e politica del premier e della sua corte ci parla, al contrario, del dopo-patriarcato: intendendo con questo termine non la risoluzione, ma una nuova configurazione del conflitto fra i sessi. La sessualità maschile è, in tutta evidenza, in crisi. Non (solo) di prestazione, con relativo corredo di protesi tecnologiche e farmacologiche: bensì di desiderio, e di capacità di relazione. Gli uomini hanno ancora potere e lo usano nei rapporti con le donne. Ma è un potere senza autorità: nudo, come è nuda la miseria di una virilità tradizionale che si tenta di ripristinare contro la destabilizzazione dei ruoli sessuali provocata da quarant’anni di femminismo.
Quanto a noi donne. Siamo davvero tutte accomunate in quell’immagine del corpo femminile plastificato, privo di cervello e oggetto del godimento maschile? O c’è uno scarto tra la fiction del femminile allestita dal regime televisivo e politico berlusconiano e la realtà delle vite e dei desideri delle donne? Certamente, quella fiction produce effetti di realtà e ha un forte potere di colonizzazione dell’immaginario e delle aspirazioni femminili. Tuttavia noi crediamo che fra quella fiction e la realtà uno scarto resti, e che proprio questo scarto abbia reso possibili le parole e i gesti di libertà di alcune donne coinvolte nella vicenda, prima tra tutte Veronica Lario, e di quante fra noi hanno dato a quelle parole e a quei gesti rilevanza politica.
Si può dunque, e come, lavorare sullo scarto tra fiction e realtà? Spetta a noi leggere la condizione femminile inforcando le lenti giuste per riconoscere tracce di libertà e forme di resistenza e dissociazione che si sviluppano anche laddove la politica e l’informazione non le vedono. In donne differenti tra loro, e anche in quelle in tutto dissimili dalle femministe di ieri e di oggi.
Vistoso è, nello scambio fra sesso, potere e denaro, il degrado della politica. Lo si denuncia sempre oscurandone, però, il segno sessuato. Certo, non è di oggi la perfetta continuità fra le aziende-spettacolo del presidente e il suo uso privato della cosa pubblica e delle istituzioni. Ma la novità è che il premier-imprenditore dispensa, in cambio di sesso, un provino da velina o un posto da parlamentare come fossero equivalenti. E ancora: Berlusconi si appella al «gradimento degli italiani», pubblico (l’audience) e privato (la complicità sulla sua presunta prestanza sessuale) per sottrarsi a qualsiasi regola di democrazia e di trasparenza. Di più: il «gradimento» legittima la menzogna, o meglio crea la verità di regime «della maggioranza».
Ma la politica così degradata perde ogni residua autorevolezza. Lo conferma il modo in cui tutta questa vicenda (non) è stata affrontata nelle istituzioni politiche. Per mesi, uomini e donne della maggioranza, ma anche dell’opposizione, si sono attestati sulla linea Maginot della distinzione fra il pubblico e il sacro «privato dell’alcova». Il disprezzo verso le donne è stato coperto con le accuse al «moralismo dei parrucconi». E la manipolazione della verità ad opera dei media controllati dal premier con il rifiuto del gossip.
Anche negli appelli alla mobilitazione in nome della democrazia e dei diritti, però, la questione sesso e potere resta opaca. Perché oggi, come e diversamente dagli anni ’70, quell’intreccio chiama in causa una trasformazione radicale della politica, e un’autocritica ruvida delle connivenze culturali dell’opposizione con il berlusconismo. Ed è troppo scomodo per i partiti di opposizione, presenti in parlamento e non, perché mette in questione il patto a cui tutti si attengono nella selezione e cooptazione del ceto politico, femminile e maschile.
Mai come oggi i rapporti tra i sessi sono il cuore della politica. Dopo la rivoluzione femminile, nel disordine del presente, si può e come riprendere parola su sessualità e politica? A partire da quali esperienze di relazione (o non) con gli uomini? Da quale desiderio? C’è da confrontarsi sui mutamenti del presente. Sono molte le donne che oggi si sentono schiacciate dalla suddetta fiction del femminile, e invocano una nuova stagione di lotte femministe. Ma c’è da chiedersi quanto siamo state disposte a rischiare, ciascuna nel suo contesto, perché «il modello dominante» fosse meno visibile o meno coccolato, e di converso il pensiero femminista fosse registrato, la parola femminile diventasse più autorevole, la bellezza femminile non venisse colonizzata.
La questione dirimente è quella delle pratiche femminili quotidiane di resistenza, conflitto, secessione, autonomia, libertà. Sono queste le pratiche che hanno reso forte il femminismo in Italia e altrove, e molecolare la trasformazione dei rapporti fra i sessi che la fiction berlusconiana combatte e occulta, ma non vanifica. Come valorizzare queste pratiche, sottraendole all’occultamento? Come rilanciare il senso politico della libertà femminile, strappandola al suo stravolgimento in libertà di competere sul mercato del corpo? Come dare alla parola femminile una forza più duratura dell’indignazione?
Di tutto questo invitiamo a discutere donne e uomini il 10 ottobre, h.10, alla Casa internazionale delle donne di Roma.

domenica 13 settembre 2009

Autonomia Operaia: due appuntamenti






cena di autofinanziamento mercoledì 16, alle ore 21 al Nido di Vespe, via degli Arvali 13 a.


presentazione del libro "Autonomia Operaia. Scienza della politica e arte della guerra dal '68 ai movimenti globali" di Emilio Quadrelli, sarà presente l'autore, sabato 26 settebre, ore 10, Villa Mirafiori, via Carlo Fea 2.



Combat su Autonomia Operaia:

A 40 anni dal ’69, non possiamo ridurci alle commemorazioni, nè alle rimpatriate nostalgiche, tantomeno indulgere in mitizzazioni.
Per noi c’è l’esigenza di un bilancio che sappia cogliere la lezione storica del quarantennio ’69-2009, di una riflessione che porti ad alcune conclusioni operative.
In definitiva, per superare gli eterni ed inconcludenti dibattiti salottieri tra sopravvissuti e le adunate di combattenti (pochi) e reduci (tanti), più che rinvangare i “bei tempi”, si tratta di utilizzare i “bei tempi” per i futuri tempi, meno certi e fors’anche “meno bei”.
Il cuore della lezione del ’69 sta, secondo noi, nel rapporto tra movimenti ed organizzazioni.
Per questo, pensiamo utile riproporre, alla luce dell’esperienza della “guerra dei 40 anni”, la questione dell’organizzazione, contro l’odierno praticismo immediatista di certo movimentismo senza movimenti, e contro il catacombismo dei “testimoni di Marx”, eterni templari a difesa del sepolcro della teoria.
La questione dell’organizzazione va posta nel senso della lotta per l’organizzazione, cioè di un dato instabile, non preconfezionabile, non riconducibile ad alcuna fondazione estetica, ne ad alcun esercizio di immagine.
L’organizzazione è un processo di interlocuzione, di innervamento con il movimento reale, che contesta e tendenzialmente supera anche tante nostre inveterate ruggini abitudinarie.
Questo processo carsico si è avvalso negli ultimi 2 decenni di una propria intelaiatura informale, caratterizzata da 2 nodi, nel tempo affrontati e sciolti: il nodo dell’internazionalismo, liberato dal nazionalismo delle “lotte di liberazione”, ed il nodo della partecipazione elettorale, evoluta dall’astensionismo tattico all’antiparlamentarismo strategico.
Oggi, a 40 anni dal ’69, si pone ed impone il 3° nodo, quello dell’organizzazione.
Per noi, scioglierlo significa proiettarci nel futuro utilizzando il passato, i tanti errori commessi, le poche intuizioni, le molte sconfitte, le episodiche vittorie.

lunedì 7 settembre 2009

Autonomia Operaia. Scienza della politica e arte della guerra dal ’68 ai movimenti globali, NdA Press, Rimini 2008, di Emilio Quadrelli

Scritto nella ricorrenza del ’68 - in una contingenza di celebrazioni e revisionismo, ove non son mancate significative elusioni -, il libro ripercorre, a partire dagli anni sessanta, l’anomalia italiana, ovvero la peculiarità delle lotte autonome che hanno accompagnato quella che viene comunemente letta, nel resto d’Europa, come una tranquillizzante rivolta generazionale. Il 69 operaio, l’Autunno caldo: l’anomalia dà i suoi frutti, il nemico non è solo il padrone, ma va a coincidere e viene individuato nello Stato.



Leyla Vahedi, Senza titolo, olio su tela, 2007.


Il capitolo “1960-1969, Il potere deve essere operaio” rintraccia la peculiarità italiana nella forza della classe operaia e, nel momento in cui l’ipotesi del potere operaio si fa realistica, nella concreta figura dell’operaio massa, che non ha smesso di “coltivare l’utopia immaginata nel corso della guerra partigiana”. Questo capitolo ripercorre e ricostruisce alcuni eventi decisivi: -Genova 1960. Viene indetto il sesto Congresso nazionale dell’MSI provocatoriamente a Genova, auspicando di inaugurare la definitiva sconfitta dello spettro comunista, “un progetto che non tiene conto delle masse come ‘variabile autonoma’ delle vicende politiche. L’errore fatale, per Tambroni e il blocco politico sociale che incarna, è l’aver identificato e scambiato la linea politica e gli atteggiamenti che animano la direzione del Pci con il comune sentire delle masse”. I giovani rompono gli argini della linea (della dialettica democratica) del Partito ritrovandosi accanto alle aree partigiane e il “logistico” che non avevano consegnato dopo l’ordine della smobilitazione generale. L’insubordinazione si estende e si fa di massa. Non si fanno troppe distinzioni tra fascisti e polizia, il nemico viene individuato nello Stato e nelle classi dominanti. L’insurrezione dei “teppisti genovesi” sarà fatta passare invece come battaglia delle istituzioni democratiche e la borghesia capisce che deve abbandonare il progetto golpista a favore di una stagione di governi di centro sinistra, un antifascismo istituzionale e interclassista. Sull’antagonismo di classe che aveva animato i moti, cade l’oblio. -Torino, Piazza dello Statuto, 1962. Prima rivolta completamente autonoma del secondo dopoguerra. Il nemico principale, più che lo Stato, viene individuato nel Padrone. -Roma, Valle Giulia, 1968. Gli studenti si scontrano con le forze dell’ordine: “diversamente da quanto sono per lo più abituati a fare, non si precipitano nella solita fuga scomposta assai simile alla rotta ma contrattaccano (…) Pur se su un piano di bassa intensità, la questione militare si evidenzia come un nodo che il movimento sarà costretto a porsi”. -Torino, Corso Traiano, 1969. Il Vietnam in officina. L’operaio Fiat da 45 giorni lotta per il contratto: “sotto la sua direzione la lotta in fabbrica assomiglia sempre di più a un terreno bellico, dove al guerra segue i ritmi della guerriglia operaia. Sabotaggio della produzione, scioperi a gatto selvaggio, occupazione improvvisa dei reparti, agguati ai capi ecc. si uniscono alle più tradizionali forme di lotta del movimento operaio. (…) lo slogan che maggiormente ricorre per i reparti: «Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina»”. Il padrone Fiat punta a impedire qualsiasi legame tra fabbrica e territorio, quindi a confinare il potere operaio tra le mura della fabbrica. Davanti al cancello 2 di Mirafiori parte l’attacco delle forze dell’ordine, gli operai sembrano disperdesi invece si ricompongono portando con sé i proletari delle abitazioni vicino e buone quote provenienti dai mondi illegali (“appena gli echi degli scontri tra operai e forze dell’ordine raggiungono i perimetri delle zone popolari, non pochi tra gli appartenenti alle gang di quartiere entrano in ballo, unendosi agli operai in rivolta”), i quali scendono in corteo scandendo slogan quali «Il Vietnam vince perché spara». Il riferimento al Vietnam è prezioso per mostrare la spaccatura con la sinistra colta e interclassista, che pure si era mobilitata in fronte comune con i movimenti pacifisti della cosiddetta nuova sinistra ma senza appoggiare, come invece fanno gli operai con azioni concrete, la lotta armata del popolo vietnamita. Se il 68 italiano non ha seguito sorti differenti dagli altri paesi, il 69 operaio mostra appieno l’anomalia italiana, mostrandosi per intero “nella veste di spettro per l’insieme delle classi dominanti, locali e internazionali”. L’esperienza degli scontri di Corso Traiano è stata decisiva per le lotte operaie, per imparare come muoversi su un terreno apertamente belligerante ed è stato il punto più alto dello sviluppo capitalistico italiano e della conflittualità operaia: “L’offensiva che il padrone scatena impone agli operai di imparare velocemente la sintassi della guerra. Ciò che inizia a prendere forma è la consapevolezza del limite che la lotta in fabbrica finisce col rappresentare. Inizia a delinearsi la necessità strategica di non isolare la fabbrica (…). L’uscita del potere operaio dal perimetro della fabbrica implica anche l’assunzione di un terreno di scontro più complesso e articolato dove, a essere chiamato immediatamente in causa, è lo Stato, quindi il politico. Il capitolo “1970-1973 Democrazia è il fucile in spalla agli operai” parla della reazione borghese, dal terrore bianco, al tentativo di disciplinare la classe operaia, che stava ponendo le condizioni oggettive per “spezzare la catena imperialista nel cuore dell’occidente”. Di fronte all’analisi secondo cui non sarebbe stata da escludere una soluzione “cilena” per l’Italia, si fa più marcata la frattura tra la sinistra istituzionale, timorosa di non poter sostenere una guerra civile, e la sinistra radicale, che si dichiara pronta a raccogliere la sfida dell’imperialismo. Nonostante la consapevolezza del livello dello scontro, dal punto di vista pratico ci si incaglia in discussioni sulla strategia, tra la linea insurrezionalista e quella di lunga durata, che invece dal punto di vista tattico e pratico non sono in contraddizione tra loro. D’altra parte l’Italia vive di un contesto differente e non appropriato per corrispondenze immediate ne’ con l’esperienza leninista ne’ con quella maoista. Al di là delle retoriche istituzionali dell’antifascismo, la situazione italiana ha memoria della resistenza armata e individua con precisione il nocciolo della questione: l’identificazione del fascismo con il potere delle classi dominanti. In questo scenario irrompono le Brigate Rosse che compiono un salto rispetto all’ortodossia comunista e si preparano a porre fine alla distinzione tra politico e militare, teorizzando l’ipotesi del “guerriero metropolitano” e ignorando un qualsiasi legame con i territori. Politico e militare continuano a rimanere distinti per l’area dell’autonomia e il terreno politico di massa non viene mai posto in discussione. Quest’area non è omogenea ma sebbene spontanea, vi è un impianto teorico in gran parte comune che pone al centro la figura dell’operaio massa e la fabbrica come “base rossa”. Brigate Rosse a Autonomia condividono l’urgenza di affrontare la questione militare. I protagonisti di questo primo embrionale armamento si muovono tra scontri di piazza e l’esercizio del contropotere sui luoghi di lavoro. Inizialmente i servizi d’ordine hanno funzione meramente difensiva, poi si evolvono in qualcosa di maggiormente articolato, si può fare un parallelo con il passaggio dalla guerra statica o di trincea a quella partigiana. Il campo di battaglia si estende, il corteo perde la sua centralità e l’uso della piazza si fa strumentale e non è più il punto d’approdo. Parla un ex militante di una formazione della guerriglia: “oggi si potrà ridere sulle ipotesi di golpe o di instaurazione di uno Stato forte ma, in quel periodo, non sembrava proprio essere il frutto di qualche paranoia di troppo. Così il discorso su come organizzare al guerriglia e la lotta illegale te lo ritrovavi ovunque, nelle riunioni dei collettivi, nelle assemblee, nei capannelli che si formavano in fabbrica dopo l’assemblea sindacale, nel bar della sezione del Partito, nelle aule universitarie. Quello che voglio dire è che, questo problema, è nato da un comune sentire. (…) Pur con tutte le differenze e le rotture che l’epoca nuova presentava, questa non sarebbe stata possibile, nelle forme che ha avuto, se dietro non ci fossero state le lotte operaie del passato e loro indubbia connotazione in chiave rivoluzionaria e comunista.” (L.) Il capitolo “1973-1976 Creare, organizzare, diffondere il contropotere operaio armato” racconta il cambiamento politico che porta alla militarizzazione del corteo, in cui ora ripiegano e si confondono i “nuclei d'attacco”. Tutti si pongono il problema del reperimento dell'armamento. Molti depositi partigiani vengono messi a disposizione dei nuovi partigiani. La piazza diventa uno dei tanti scenari in cui si svolge la “guerra di guerriglia”. Nel mirino rientrano strumenti e uomini di potere, il conflitto non è più solo tra operai e padrone ma tra Proletari e Stato. “La partita con lo Stato non sembra più essere rimandabile o, per lo meno, questo è il punto di vista che tutta l'area dell'Autonomia matura”. La forza che la classe esprime in sé è sul punto di esplodere: fabbriche, scuole, università non funzionano più come ingranaggi del sistema capitalistico, eppure si presenta una sfasatura organizzativa. L'Autonomia mantiene distinti lavoro legale e lavoro illegale, anche se le forze destinate all'illegale diventano sempre più cospicue. La direzione politica si mostra titubante, l'organizzazione militare non è al livello di quella della macchina statale che vanta un'esperienza di lungo corso. Bisogna precisare che per l'Autonomia è difficoltoso ricostruire il percorso militare, a differenza delle BR che, avendo risolto il militare nel politico, hanno prodotto testi anche sul militare. Tra i tanti intoppi che il movimento è obbligato a porsi, c’è lo sbilanciamento delle forze 'materiali': “Nel momento in cui la partita che inizia è tra Proletari e Stato e la posta in palio è la conquista del potere politico l'asimmetria delle forze militari che i due contendenti sono in grado di mettere in campo è ovviamente notevole. Da una parte vi è una macchina burocratica e militare potente e attrezzata, dall'altra un grande potenziale storico dotato di mezzi scarni e modesti. Un confronto sproporzionato che può essere risolto a proprio vantaggio solo imponendo al nemico un tipo di combattimento nel quale, la sua superiorità, non è fondamentale. Questo terreno è la guerra partigiana.” La guerra partigiana consente di far fruttare un logistico modesto e consente una certa autonomia ricreativa e rigenerativa. La formazione dei nuclei non necessità di grandi mezzi ed è spontanea, la forma banda assume un ruolo identitario importante. Allo stesso tempo, si fa difficile creare una “direzione” politica, ciò non togliendo, contrariamente a quanto si è fatto credere, che l'Autonomia fosse ben radicata e inserita nella classe. Avviene qualcosa di simile alla Resistenza quando “le strutture partigiane si formavano senza direttiva, e la maggior parte dei suoi militanti impara l'arte del combattimento, della lotta clandestina, della guerra in montagna o della più difficile guerriglia urbana soltanto praticandola e dovendosela in qualche modo inventare”. S., un autonomo di Milano dice: “non c'è un modello unico ed egemone. C'è un accordo di fondo sulle linee guida. D'altra parte se guardi come si organizza la diffusione del contropotere operaio armato, questo sembra inevitabile. Anzi, si può dire che l'estensione del contropotere operaio armato segua a pieno la teoria maoista dei cento fiori, piuttosto che la rigidità di un programma solido e definito una volta per sempre. Sembra quasi un paradosso, ma noi che siamo considerati degli iperleninisti agiamo da maoisti, mentre i maoisti sembrano più leninisti di noi. Sono le Br, infatti, che operano in quella direzione, (...) sembrano avere una concezione del processo rivoluzionario sostanzialmente lineare. (...) per noi al contrario, la storia è sempre un processo che avanza per balzi e ogni fase presenta caratteristiche nuove e diverse (...)”. La sinistra extraparlamentare comincia ad attraversare una crisi che si focalizza intorno alla questione della violenza della lotta armata.

I due capitoli “La guerriglia diffusa (parte prima e parte seconda)” sono dedicati alla ricostruzione degli eventi dell’intenso biennio 1977-1979. Una ricostruzione degli eventi come pure una lettura politica lineare di questo biennio così gravido di conseguenze per gli anni a venire risultano non solo impossibili ma anche assolutamente inutili. Non si tratta, infatti, di anni lineari. L’Italia del 1975-1976 è un paese ancora a dominanza “operaio-massa”. Ossia intorno alla figura dell’operaio, nelle lotte politiche, in un processo a cascata si è data la possibilità di unire in unico fiume i mille rivoli dei molteplici fronti dello scontro di classe. E’ intorno a questa figura e soprattutto alle sue “forzature” che si è resa possibile sia la ricomposizione del proletariato in quanto “classe per sé”, sia l’assunzione cosciente delle conquiste del potere politico.
L’elezioni del 1976 segnano un enorme avanzamento del PCI che rischia di diventare il primo partito italiano. A preoccupare la classe dominante non è tanto il risultato elettorale quanto il dato politico che esso esprime: il rapporto di forza che la classe operaia è in grado di esercitare. Il contropotere operaio è fuoriuscito dalle fabbriche conquistando i territori e mettendo sotto assedio il potere borghese (sono del ’76 gli scontri alla Scala portati avanti dal proletariato milanese). Da questo punto di vista è allora evidente l’uso tattico che l’Autonomia fa del partito riformista: “ sotto la spinta della lotta autonoma operaia, il riformismo del Partito non può che spingersi sempre più avanti.”
Se ancora nel ’76 l’irrompere della forza politica e dell’egemonia culturale della classe operaia è elemento costitutivo della scena politica del paese, già sul finire del ’77 il clima politico appare cambiato. Non si tratta semplicemente di un adeguamento di fase ma di una vera e propria svolta negli assetti del capitale. L’offensiva politica che il comando capitalista lancia nei confronti della classe ha un obiettivo ben preciso: annientare la composizione di classe. “Inizia così un massiccio e repentino programma di ristrutturazione del modo di produzione capitalista che svuota le grandi concentrazioni operaie e manda in frantumi la figura politicamente egemone dell’operaio massa. I processi tramite cui tutto ciò viene attuato sono quelli di delocalizzazione, esternalizzazione, deregolamento (dilagano i fenomeni del lavoro nero, dell’economia sommersa, della terziarizzazione). Tutto ciò comporta quella che viene definita come trasformazione della città in fabbrica diffusa, dove diventa sempre più difficile individuare la figura egemone e centrale in grado di unificare l’intero fronte di classe. In qualche modo ciò che con il ’77 viene meno o comincia a diventare sempre più difficoltoso è la messa a fuoco dei contorni precisi dell’ amicizia e dell’inimicizia di classe. Da questo punto di vista il progressivo affermarsi e diffondersi delle pratiche di guerriglia e combattimento rappresentano la risposta immediata al farsi sempre più incerta della visione politico strategica complessiva del fronte proletario.

Nel secondo capitolo dedicato al biennio ’77 – ’79, ad essere prese in considerazione sono le conseguenze che il riassetto e la svolta negli assetti del capitale comportano da una parte sul versante istituzionale, dall’altro sulle strategie e le tattiche del contropotere operaio. Il Partito riformista cambia definitivamente faccia: “il PCI da partito del riformismo operaio diventa il migliore agente e interprete del riformismo del capitale.” D’altra parte solo il PCI con la sua struttura organizzativa e il suo grado di penetrazione nei territori e all’interno delle masse è in grado di svolgere il compito decisivo per le sorti della controrivoluzione di disciplinamento e normalizzazione dell’enorme potere eversivo conquistato dal proletariato nel corso delle lotte a partire dal ’69. “L’ Autonomia individua nelle azioni poliziesche portate avanti dallo stato più che una logica meramente repressiva una coerente logica militare in grado di adeguare l’agire delle forze di polizia all’intensificarsi del conflitto politico in corso”. Se lo Stato tende a farsi Società, ovvero ad esercitare un potere totalizzante sulla varietà dei mondi sociali, questo comporta la generalizzazione del nemico: “se lo Stato è ovunque, il nemico è dappertutto”. L’autonomia, potendo ormai vantare un ambito di influenza assai ampio, da vita alla pratica della guerriglia diffusa. “Da un punto di vista organizzativo e a maggior ragione sotto il profilo politico-militare, l’autonomia si mostra più come un frastagliato insieme di torrenti burrascosi piuttosto che la piena dirompente di un unico e maestoso fiume”. In questo momento all’interno di quest’area si comincia a manifestare uno sganciamento del militare dal politico. Paradossalmente proprio nel momento in cui il deficit logistico e organizzativo viene superato, viene a mancare la base di masse che ha imposto e legittimato il ricorso all’armamento della classe.
“In realtà il passaggio alla guerriglia diffusa comporta una sovversione in piena regola delle logiche del politico e della guerra. Centrale sia nel pensiero politico, sia nella strategia militare è l’individuazione concreta del nemico. Generalizzare l’idea di nemico comporta il renderlo indistinto, infine depoliticizzarlo, delegittimando a sua volta il ruolo stesso della politica”. Ora la controparte di una nemicità indistinta è l’indistinzione anche nella definizione dell’amicizia di classe. A diventare decisivi sono allora i punti di vista soggettivi con un’inevitabile tendenza al soggettivismo e al militarismo: inevitabile in quanto dovuta al cambiamento strutturale che ha attraversato la società italiana. Il nemico non ha più una definizione oggettiva e perciò centrale diviene la sua individuazione a partire dalle “pratiche soggettive”. E’ in tale contesto che il combattimento assunto quasi come valore in sé, tende a rendersi autonomo dal politico. L’eccedenza del militare, l’assenza di un orizzonte politico strategico in cui è inserito, comporta il passaggio dalla figura del rivoluzionario a quella del ribelle. Con la fine di questo biennio d’intensità straordinaria il programma operaio appare avviato a divenire manifesto dei ribelli.

Nel capitolo 1980 – 1984 Crisi, tramonto, sconfitta vengono affrontate le risoluzioni strategiche adottate delle altre organizzazioni comunista combattenti di fronte alla crisi profonda da cui il movimento operaio è investito, crisi di cui gli eventi Fiat del 1980 danno una perfetta rappresentazione. “L’autunno torinese apre sugli anni ’80 e su un modello politico, sociale e culturale la cui storia è ancora tutta da scrivere. Uno scenario che rompe il quadro politico di classe all’interno del quale l’ipotesi del potere si era determinata ma che non sembra intaccare una spiccata tendenza al combattimento per intere aree di giovani militanti passati attraverso l’esperienza del ’77. Le Brigate Rosse conoscono in questo periodo una serie di scissioni: - la Walter Alasia, colonna milanese, quella che rimane maggiormente ancorata alla fabbrica – Il Partito Comunista Combattente che privilegia la dimensione avanguardistica e internazionalista – Il Partito Guerriglia, la parte maggioritaria delle Brigate Rosse, che teorizza il passaggio dalla città alla metropoli e alla guerra a tutto tondo nella metropoli che rappresenta la materializzazione della società del capitale. Prima Linea, al contrario delle Brigate Rosse, che in questo periodo si pongono il problema del salto d organizzazione a Partito, si pone il problema opposto quello del passaggio da organizzazione a banda. Per Prima Linea l’eclissi dell’operaio massa finisce per ratificarla fine del politico: l’ipotesi è quella delle molteplici comunità belligeranti che ognuna a partire dalla propria soggettività scatena un conflitto endemico ma apparentemente privo di finalità contro ogni forma di dispotismo statuale. E’ evidente come il tratto comune a tutte queste esperienze sia la difficoltà e l’incapacità di dare risposte concrete da un punto di vista e pratico e teorico alle trasformazioni radicali avvenute all’interno della classe. “ In qualche modo le categorie analitiche classiche del marxismo non sembrano più in grado di svolgere il tradizionale ruolo di scienza di classe, capace di leggere e anticipare le mosse del nemico”. Con il venir meno di una chiara identificazione del nemico, è il terreno stesso del politico che sembra sgretolarsi.

Nell’ultimo capitolo Il politico al tramonto viene fatta un’analisi della fase di riflusso della lotta di classe che si inaugura con gli anni ’80, un’analisi del nuovo assetto capitalistico che si afferma in questo periodo e delle problematiche che questo pone dal punto di vista dell’organizzazione e della ricomposizione di classe. Ciò che con gli anni ’80 sembra determinarsi è la definitiva messa in mora delle categorie del politico. Anche le sole parole chiave della lotta rivoluzionaria : classe, lavoro salariato, proletariato, imperialismo ma soprattutto “nemico” escono dall’uso comune e vengono accantonate. La stessa “forma partito” esce di scena. “ La politica non delimita più un campo di appartenenza e/o avversione esistenziale ma diventa il semplice spazio dove si confrontano dei punti di vista. Ciò che inizia a prendere forma è la messa in atto di un discorso completamente autoreferenziale e sganciato dalla vita materiale. “L’agire trasformazione sociale”, parola d’ordine dell’ala operaista che con il Manifesto dei 51 comincia quel percorso di dissociazione che sostanzialmente si presenta come manifesto di dissociazione dal politico. Il disastro cui il Movimento No Global va incontro durante le giornate genovesi del 2001 rappresenta l’esito di questo processo. D’altro canto l’eclissi del politico, il venir meno di una solida e efficace teoria rivoluzionaria (senza teoria rivoluzionaria, non esiste movimento rivoluzionario) corrispondono al mutamento radicale degli assetti capitalistici e della “forma stato” come comitato d’affari della borghesia. In Italia la forza e il potenziale rivoluzionario che la classe operaia aveva messo in campo negli anni ’70 aveva determinato un concentrarsi da parte delle organizzazioni comuniste sul piano nazionale, rimanendo ancorate ad un orizzonte esclusivamente locale. Gli anni ’80 con la ristrutturazione capitalistica che si portano appresso sono la fase di passaggio che prelude al pieno manifestarsi anche in Italia dello scenario determinato dalla fase del capitalismo globale. La società degli anni ’80 si caratterizza come società dove a prevalere è la figura dell’individuo isolato e atomizzato, dove a contare è solo lo stile di vita prescelto, società in cui non ha più alcun significato la lotta per il raggiungimento di obiettivi collettivi. Una società che si autorappresenta come “post-materiale”, incentrata sul piacere e sull’edonismo, pacificata e ormai immune da crisi e conflitti. Ciò che ne resta fuori viene ascritto al piano del patologico, dell’esclusione sociale. Naturalmente si parla di una società esclusivamente occidentale, perché al di fuori del mondo occidentale le cose vanno ben diversamente. All’interno di questa società sembra aver senso tutt’al più parlare di “imperialismo culturale”. Ora nel giro di meno di un decennio l’imperialismo con la tendenza alla guerra, tutt’altro che meramente culturale, che gli è propria e le contraddizioni del capitalismo globali si fanno evidente anche nelle società “pacificate” occidentali. Il fenomeno dell’immigrazione appare, da questo punto di vista, la cartina tornasole. Il capitalismo globale mostra ben presto la sua tendenza: esso ha bisogno di disciplinare al lavoro quote sempre più ampie di popolazione creando forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. “ Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare TEMPO ed ESISTENZA di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivendole al mondo del lavoro subordinato. In questo scenario due sono le suggestioni che nell’ottica di una riorganizzazione di classe efficace per un movimento rivoluzionario comunista sembra necessario cogliere e sviluppare. “Da una parte il capitalismo globale sembra portare con sé un decisivo ridimensionamento del potere dei governi nazionali, fortemente depotenziati e messi sotto controllo delle agenzie multinazionali. Per il capitalismo globale si tratta di garantire una continua riproduzione di produttori a basso costo, posti nella condizione di non nuocere, scongiurando così qualsiasi ipotesi di resistenza”. E’ dunque una strategia capace di tenere conto della ridefinizione del potere statale non più strettamente nazionale quella di cui le classi subordinate hanno bisogno. L’altro dato importante è la condizione materiale cui il capitalismo globale ascrive i subalterni. “In poche parole il capitalismo globale può svilupparsi solo a condizione di universalizzare i modelli di controllo e disciplinamento più rigidi, deregolamentando ogni forma di diritto e relegando, almeno in tendenza, le classi subalterne a semplice vita biologica. Si assiste così a un curioso interscambio. La base tecnica del Primo Mondo è esportato nell’ex-Terzo Mondo mentre il modello sociale di questo, per corpose quote di popolazione, è importato nel Primo. La tendenza vigente nelle società attuali sarebbe quella di ascrivere nuovamente gli esseri umani all’interno di due ordini di grandezza incommensurabili: la bella vita da una parte e la nuda vita dall’altra”. Tale orizzonte può essere definito in qualche modo postcoloniale. Le classi subalterne sono le classi estranee alla condizione di individuo cittadino. “La figura del migrante sembra assumere una valenza generale poiché per quanto paradossale possa apparire, può essere tranquillamente estesa a tutti coloro che precipitano nella condizione poco appetibile dei dannati delle metropoli. Tutta la partita sembra allora giocarsi sulla capacità delle classi di tenere insieme le lotte in un orizzonte globale unitario, recuperando la dimensione internazionalista del conflitto, e di ripensare le categorie marxiane alla luce del mutamento epocale apportato dalla fase del capitalismo globale. Se la tendenza nelle metropoli globali sembra essere quella di una messa in forma di nuove società dell’apartheid, lo scontro di classe sembra poter essere ricondotto “alla linea del colore”. Se proletariato e borghesia rimandano ad una relazione conflittuale che ha come suo presupposto la non svalutazione, almeno dal punto di vista concettuale, dell’avversario, la guerra tra bianco e nero è per definizione effetto di un rapporto di potere asimmetrico, fondato sulla pretesa ad un dominio “naturale”, “biologico”. Tanto è vero che l’ordine discorsivo delle classi dominanti bolla come folle e deviata la sola idea dell’abolizione dello stato presente delle cose. Lo Stato al suo interno non conosce più nemici ma devianti, mentre solo canaglie e banditi lo minacciano nella sfera internazionale. Questo a grandi linee lo scenario globale che si va costituendo. E’ dunque su questo terreno che le lotte e le resistenze dei subalterni devono misurarsi.



Proprio a partire da queste considerazioni prende le mosse quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo capitolo del libro ma che in Italia è rimasto inedito, Il gemito degli oppressi.
Il capitolo inizia mostrando come il concetto marxiano di accumulazione originaria, categoria tramite cui Marx identifica il meccanismo di rapina, dominazione e violenza con cui il capitalismo riproduce continuamente se stesso, continui ad essere assolutamente valido per l’epoca del cosiddetto capitalismo globale. Ciò che lo distingue dalla fase dell’imperialismo classico sembra essere il venir meno delle tradizionali linee di confine tra Primo e Terzo mondi: “le diverse forme in cui i corpi sono messi al lavoro al fine di trarne ricchezza coabitano all’interno del medesimo spazio geopolitico a forme di controllo differenziate”. Questo comporta dunque mutamenti non secondari nella forma guerra tramite cui il capitale assicura il suo dominio. Se il capitalismo globale non ha certo espunto il conflitto dai nostri mondi, anzi in un certo senso lo ha acuito, facendo emergere in maniera sempre più dirompente i caratteri antagonistici e conflittuali dei subalterni, la classe e la sua tradizionale composizione sembrano vivono una crisi radicale. Nello scenario del capitalismo globale certamente la scienza marxista rimane il principale strumento critico nelle mani dei subalterni ma uno sguardo attento sulla realtà mostra come le ricadute che l’era del capitalismo globale ha apportato non sono secondarie. Il delinearsi delle linee dell’amicizia e dell’inimicizia obbligano ad un lavorio di ricerca ed analisi eall’elaborazione di ipotesi politiche e organizzative capaci di ridare forza alle lotte dei subalterni. Da questo punto di vista nel capitolo vengono prese in considerazione alcune esperienze di lotta ritenute particolarmente significative perché consentono di considerare criticamente termini quali”popolo”, “razza”, “etnia” o “colonizzati”, “cultura”, “religione”, in quanto elementi costantemente coabitanti con la condizione proletaria ma al contempo portatori di caratteristiche e peculiarità proprie che a loro volta incidono sull’agire concreto dei movimenti politici e sociali da questi messi in campo. Ad essere presi in considerazioni sono le lotte sviluppatesi nella banlieue francese, la resistenza dell’Islam politico, il movimento nero americano da Malcom X alle Black Panters, la resistenza algerina e quella irlandese. Ciò che queste lotte hanno in comune è il partire dalla condizione di “colonia interna” in una società a capitalismo avanzato: quello che nell’era del capitalismo globale sembra diventare l’elemento normativo e ordinativo delle metropoli. Quello che di interessante hanno da dire queste lotte e queste resistenze sono le strategie messe in campo: “per i subalterni non si tratta, perché profondamente irrealistico, di conquistare il potere politico attraverso l’assalto al Palazzo d’Inverno ma di costruire e costituire un potere autonomo all’interno del conteso in cui si opera”. Costituire cioè una sorta di dualismo di potere nell’ipotesi di una guerra di lunga durata la cui dimensione è affrontabile solo sul piano internazionale. Il dato forse più significativo che emerge da queste esperienze è come di fronte ad un dominio imperialistico che opera tramite la svalutazione e la riduzione del nemico a marginale e deviante se interno, terrorista se esterno, perché i subalterni si pongano nella prospettiva di dare l’assalto al cielo occorre, per prima cosa, costruire un modo nuovo e diverso di intendere le relazioni con i propri simili. I territori dei “colonizzati” devono diventare, con ogni mezzo necessario, luoghi sicuri per la popolazione, luoghi di socializzazione, solidarietà e auto-organizzati.

Un capitolo che lo stesso autore definisce un work in progress, capitolo denso di prospettive rispetto alle quali potrebbe essere utile ipotizzare un percorso di approfondimento critico e politico.

mercoledì 15 luglio 2009

L’Ennemi interieur, La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine, di Mathieu Rigouste

di Paolo Persichetti per Baruda.net e per Liberazione 12 luglio 2009

La temperatura sociale delle periferie francesi è sempre alta. La cronaca non esita restituirci immagini non molto lontane dalle scene di guerra. Ed, in effetti, i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del «nemico interno». Dispiegamento delle più aggiornate tecnologie antisommossa (elicotteri, micro-droni, telecamere di sorveglianza), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa, introduzione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato» e i giudizi processuali per direttissima; creazione di una branca specifica dei Servizi (appartenenti alla nuova Direction centrale du renseignement intérieur, Dcri), con competenza sulle banlieues, sui moti urbani, il cosiddetto fenomeno delle «bande», la nascita di nuove banche dati centrali, come il sistema Edvige-Edvirsp e Cristina (Cf. Liberazione – Queer del 5 ottobre 2008), finalizzati alla schedatura «di ogni persona d’età superiore ai 13 anni che abbia sollecitato, esercitato o stia esercitando un mandato politico, sindacale o economico o che rivesta un ruolo istituzionale, economico, sociale o religioso significativo». Ennemi_interieur182Insomma un intero arsenale tecnico, giuridico e poliziesco che rinvia apertamente al regime dello stato d’eccezione.



Hassan Vahedi, 2005.

È indubbio che tutto ciò ricalca un immaginario di guerra che conduce a rappresentare alcune zone della società come dei teatri bellici dove l’intervento pubblico non si concepisce più nei termini della politica e del welfare ma unicamente sotto l’aspetto repressivo, per giunta nella sua forma più intensa: quella militare. Questo «nuovo ordine sicuritario» contemporaneo avrebbe una genealogia ben precisa rintracciabile nell’esperienza coloniale e militare della Francia. È quanto dimostra Mathieu Rigouste in un recente volume edito dalla casa editrice La Découverte, L’Ennemi interieur. La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine. Il caso francese deve intendersi in questo caso come un laboratorio, un’esperienza pilota, l’anticipazione di scenari e comportamenti esportabili nel resto del mondo.

In fondo è già accaduto in passato, quando la «dottrina della guerra rivoluzionaria», elaborata dagli stati maggiori francesi nel corso delle guerre coloniali d’Indocina e d’Algeria, popolarizzata nel libro del colonnello Roger Trinquier, pubblicato nel 1961 col titolo, La Guerre Moderne (ripubblicato da Economica nel 2008) e da cui la Cia ispirò il suo primo manuale antisovversione, è diventata la madre di tutte le dottrine contro-inssurrezionali del dopoguerra impiegate dalle forze Nato come da tutte le dittature militari e fasciste, in particolare in Sud America. La counterinsurgency statunitense altro non è che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi hanno insegnato nelle scuole di guerra del Nord America. Si veda in proposito il lavoro di Marie-Monique Robin, Escadrons de la mort, l’école française, La Découverte 2004, che ritraccia l’inquietante percorso di alcuni ufficiali maggiori dell’esercito di Parigi, reduci dall’Indocina e dall’Algeria, che hanno formato alla controguerriglia gli ufficiali Usa a Fort Bragg e nella famigerata Scuola delle Americhe. Un apostolato antisovversivo segnato da varie tappe: lo sbarco come consigliere militare in Argentina, nel 1957, del colonnello Bentresque; il suo primo giro di conferenze (1962) nelle caserme sudamericane per insegnare le strategie antisovversive; Il manuale Instruction pour la lutte contre la subversion, scritto sempre dai colonnelli Ballester e Bentresque; la proiezione, nel 1971, all’interno della famigerata scuola di meccanica della Marina a Buenos Aires (dove furono torturati migliaia di cittadini sospettati d’essere militanti di sinistra) delle scene di tortura presenti nel film la Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo, per rendere più efficaci i corsi di tortura impartiti ai presenti. La missione in Brasile del generale Paul Aussaresses, il gran maestro della tortura in Algeria, l’uomo che ha perfezionato e insegnato a tutti gli eserciti e polizie dell’Occidente l’uso degli elettrodi (sui genitali e le tempie) e della waterboarding (l’annegamento simulato) durante gli interrogatori. Metodi impiegati diffusamente anche dalla nostra Digos contro i militanti della lottarmata arrestati nel biennio 1982-83, ben prima che suscitassero scandalo perché impiegati dalla Cia nelle prigioni di Guantanamo e Abu Ghraib.

La dottrina della guerra rivoluzionaria sostituita da De Gaulle, non senza difficoltà, grazie all’arma nucleare acquisita nel 1960, e sostituita dalla dottrina della dissuasione del «debole verso il forte», non sarebbe mai stata rimossa definitivamente, anzi avrebbe mantenuto solide radici all’interno di alcuni settori militari per trasmigrare nelle forze di polizia ispirando le politiche di «mantenimento dell’ordine», utilizzate “ufficiosamente” nell’area d’influenza africana e nella gestione del controllo interno dopo il 1968 e da qui, soprattutto dopo l’11 settembre, assorbite anche dal mondo della politica fino a dare forma ad un modello di potere militarizzato.
police-partout3Al vecchio nemico geopolitico comunista dell’epoca dei blocchi, dopo l’89 si sarebbero venuti a sostituire una proliferazione di «nuove minacce», terrorismo, islamismo, violenze urbane, incivilités (qualcosa che assomiglia al nostro bullismo) che hanno giustificato la riedizione di una nuova figura di nemico interno, l’immigrato post-coloniale in grado di riattivare il risorgere di passate rappresentazioni razziste. Un nemico socio-etnico, locale e globale al tempo steso, dissimulato nei quartieri popolari, residente nelle periferie, soprattutto tra i «non bianchi poveri».

L’immaginario, la costruzione e proiezione di raffigurazioni che vanno ad arricchire il repertorio delle classi pericolose e delle leggende ansiogene, costituiscono un elemento decisivo di questo nuovo ordine sicuritario che ispirandosi ai criteri della «guerra totale», ricorre alla cosiddetta «guerra psicologica», ovvero alla mobilitazione delle coscienze, alla costruzione di consenso, lì dove lo Stato-nazione è concepito come un organismo che la difesa nazionale deve immunizzare dalle malattie sociali, dai contagi rivoluzionari, dalla piaga del crimine, l’epidemia del vizio, e rassicurare dalle paure.
Questo nuovo ordine collima con una nuova formazione sociale che Mathieu Rigouste definisce «capitalismo sicuritario», dove il controllo oltre a riprodursi in forma allargata ha ingenerato un proprio mercato. La forma più inquietante di questo modello descrittivo è la constazione del grado di adesione dei controllati ai controllori. Non si tratta di un semplice modello di dominazione, ma di un processo di adesione dal basso, di controllo reciproco e autocontrollo. Quello che il sociologo Philippe Robert coglie descrivendo l’emergere di un «neoproletariato della sicurezza», reclutato grazie al precariato di massa all’interno di quel sistema di polizia sociale che è il mondo della sicurezza e della vigilanza privata, un sottosistema del controllo brulicante di sorveglianti dei metrò e dei supermercati, subalterni della sicurezza di vario ordine e natura, fino ai mediatori sociali, gli stuart degli stadi, gli assistenti sociali eccetera. Un sistema dove il povero è preso a controllare l’altro povero e non alza più la testa.

sabato 11 luglio 2009

L'uccisione di Marwa al-Sherbini



Hassan Vahedi, Uomo=Donna

Germania e islamofobia: #Marwa la martire con il velo
di Azzurra Meringolo

Una donna egiziana incinta viene uccisa a coltellate in un tribunale di Dresda da un tedesco dichiarato colpevole per averla offesa in un parco pubblico. La vicenda non trova grande spazio tra i media europei ma in Egitto grazie ai blog e a Twitter diventa un simbolo per denunciare l'ipocrisia europea. E al G8 la Merkel si scusa con Mubarak.I bloggers egiziani l’hanno definita la nuova martire del velo e su Twitter se ne parla così tanto che #Marwa è diventato uno dei tag di tendenza. Vista la sua morte, assurda per le modalità ed il luogo nel quale si è consumata, Marwa al Sherbini rischia davvero di diventare una nuova martire dell’Islam.Ad uccidere questa trentaduenne egiziana, mamma di un bimbo di tre anni e da tre mesi in dolce attesa del secondo, è stata un ventottenne tedesco, dalle origini russe, conosciuto come Alex W., che lei stessa aveva citato in giudizio l’anno scorso. Il particolare più agghiacciante resta però il luogo del delitto, perché a fare da sfondo a questa tragedia è stata l’aula del tribunale di Dresda nel quale l’uomo era stato dichiarato colpevole.
La vicenda cominciò nel novembre scorso quando, in un parco di Dresda, Marwa chiese a Alex W. di liberare l’altalena per farci salire il suo bambino e l’uomo iniziò a insultarla pesantemente con offese volgari. Arrivò a definire la ragazza una terrorista ed è probabile che a motivarlo fosse il fatto che la donna indossava l’hijab, il tanto discusso velo che copre la testa pur lasciando scoperto il volto.
Poi il processo, conclusosi il primo luglio scorso quando, dopo essere stato dichiarato colpevole e multato con una sanzione di 750 euro, Alex W. ha impugnato il coltello con il quale ha posto fine alla vita della giovane donna.. E’ in questo inedito palcoscenico che Alex W. infligge diciotto pugnalate nel petto di Marwa che muore così davanti agli occhi del suo bimbo e del marito che cerca invano di difenderla. Anche quest’ultimo esce ferito dall’aula, a causa di un proiettile sparato della guardia di turno in aula che lo ferisce alla gamba. Secondo indiscrezioni, a confondere quest’ultimo sarebbero forse stati i tratti somatici di Sherbini che, non essendo biondo, è stato preso per il colpevole.
Il giudice stesso ha dichiarato che l’assassino è stato mosso da un profondo odio nei confronti dei musulmani: è per questo che, martire o meno del velo, Marwa è apostrofata da molti come una vittima della preoccupante islamofobia che sta dilagando in Europa.
Se nel vecchio continente il caso è stato quasi del tutto taciuto, in Medio Oriente, e soprattutto in Egitto, se ne è parlato un po’ ovunque.
I bloggers si sono scatenati nel denunciare l’episodio che è diventato un pretesto per discutere di razzismo e di Occidente. Mentre nelle righe dei loro diari virtuali molti internauti hanno scritto dell’odio e dell’intolleranza dei cristiani verso i musulmani, tra le strade di Zamalek alcuni cittadini egiziani, stanchi di sentire parlare del Medio Oriente come della terra dei terroristi, hanno sfilato in protesta fino a raggiungere l’ambasciata tedesca del Cairo. Qui hanno ribadito a gran voce che la storia di Marwa dimostra che i terroristi non sono certo loro.
sabato 11/07/2009 17:47



IRAN: ASSEDIATI DIPLOMATICI TEDESCHI
Circa 150 studenti, utilizzando come pretesto l'assassinio di una donna egiziana nel tribunale di Dresda, hanno assediato l'ambasciata tedesca a Teheran, in Iran. I manifestanti hanno bersagliato di uova i muri della rappresentanza diplomatica. Marwa al-Sherbini fu uccisa lo scorso mese a Dresda da un tedesco, trascinato da lei in tribunale dopo che questi l'aveva definita "terrorista" perché portava il velo. Il giorno dell'udienza l'uomo, un tedesco di origine russa, riuscì a entrare nell'aula con un coltello e colpì diciotto volte la donna, che era incinta. Poi accoltellò anche il marito, al quale in seguito la polizia sparò per errore nella ressa che si era creata nell'aula. Alla scena assistette anche il figlio della coppia, un bambino di tre anni. L'assassinio ha suscitato dolore e indignazione in Egitto e migliaia di persone hanno partecipato ai funerali della donna ad Alessandria. Angela Merkel, consapevole della consistenza della comunita' musulmana in Germania, ha espresso il proprio dolore e dispiacere a Hosni Mubarak. Ma Teheran soffia sul fuoco, e così sono stati scritti e rivolti slogan e insulti: "Angela, la nazista", "Morte alla Germania".

lunedì 6 luglio 2009

GIOVEDÌ 9 LUGLIO 2009, DALLE ORE 16.30 PRESIDIO DAVANTI AL CIE DI PONTE GALERIA

Nelle giornate in cui si svolgerà il G8 vogliamo stare fuori dalle mura Ponte Galeria, mentre i cosiddetti “grandi della terra” saranno nascosti dentro una caserma a parlare della crisi. I governi del mondo chiamano a gran voce la libera circolazione delle merci e dei capitali, pretendendo di fermare e controllare i flussi migratori, mentre l’unica possibilità di movimento concessa alle persone sembra essere quella legata al mercato del turismo o allo sfruttamento del lavoro. Respingimenti, detenzioni indiscriminate e politiche securitarie di militarizzazione sembrano essere la risposta dei cosiddetti paesi industrializzati alla crisi economica e sociale che hanno contribuito a creare.
Pochi giorni fa è stato definitivamente approvato il “pacchetto sicurezza”, attraverso cui il territorio dello stato italiano assumerà ancor di più il carattere di laboratorio a cielo aperto della repressione permanente. L’entrata o la permanenza “irregolare” al suo interno diventa reato, la durata massima della permanenza nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) è estesa da 2 a 6 mesi, le ronde razziste vengono legalizzate, solo per citare alcuni degli inasprimenti repressivi previsti dalla nuova legge. Intanto i reclusi dei CIE di Milano, Bologna e Gradisca d'Isonzo stanno già protestando con uno sciopero della fame.

Vogliamo tornare fuori da Ponte Galeria perché nei CIE finiscono persone rastrellate per strada mentre tornano a casa dopo una giornata di lavoro sottopagato, mentre fanno la fila per rinnovare il permesso di soggiorno, oppure mentre aspettano un amico per uscire la sera.
Chiunque protesti contro le brutali condizioni di vita imposte da questi lager democratici (sovraffollamento, igiene inesistente, psicofarmaci come strumento di sedazione di massa, acqua razionata e negazione di ogni assistenza) si trova a subire violenze fisiche e intimidazioni. Pestaggi e abusi da parte della polizia e della Croce Rossa (che gestisce il CIE di Ponte Galeria) sono all’ordine del giorno e solo negli ultimi tre mesi si sono registrate due morti: Salah Souidani, morto dopo che il personale sanitario gli aveva rifiutato l’assistenza medica (e dopo aver inoltre subito un pestaggio poliziesco, secondo la testimonianza di altri reclusi), e Nabruka Mimuni, che era in Italia da trent’anni e che, dopo aver ripetutamente minacciato di togliersi la vita piuttosto che essere rimpatriata, è stata lasciata in balia del proprio destino.

Non è pensabile che persone che hanno scelto di andarsene dal proprio paese d’origine, mettendo spesso a rischio la propria vita per costruirsi un futuro migliore, o per fuggire da un presente di oppressione, si trovino ad essere rinchiuse in un lager di stato.

La clandestinità non è che una condizione imposta da politiche razziste, xenofobe, basate sullo sfruttamento e sul ricatto continuo. Noi non ci dividiamo in “italiani” o stranieri, ma ci consideriamo tutti e tutte abitanti del mondo.

Libertà di movimento per tutte e tutti.
Chiudere i Centri di Identificazione ed Espulsione.
Contro la società dei recinti e delle frontiere.

GIOVEDÌ 9 LUGLIO, DALLE ORE 16.30 PRESIDIO A PONTE GALERIA:
MUSICA, VOCI, PAROLE.

L'appuntamento per prendere tutte e tutti il trenino è alle 16.00 alla stazione Ostiense.

Portiamo tutta la nostra creatività, la nostra rabbia e la nostra forza davanti a quelle mura, facciamo sentire a chi vi è rinchius* la solidarietà di tutt* coloro che non vogliono più tollerare l’esistenza di questi lager, né le torture e gli omicidi di stato che si vorrebbero occultare al loro interno.

Il presidio si svolge nel parcheggio della fermata "Fiera di Roma" del trenino per Fiumicino aeroporto (Via Gaetano Rolli Lorenzini angolo Via Cesare Chiodi).

Antirazziste e Antirazzisti
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JUEVES 9 DE JULIO DEL 2009, DESDE LAS 16:30
CONCENTRACIÓN DELANTE DEL CIE PONTE GALERIA

En los días en los que tendrá lugar el G8 queremos estar fuera de los muros de Ponte Galeria, mientras los susodichos “grandes de la tierra” estén escondidos dentro de un cuartel para hablar de la crisis. Los gobiernos del mundo piden a gritos la libre circulación de las mercancías y del capital, pretendiendo parar y controlar los flujos migratorios, mientras que la única posibilidad de movimiento concedida a las personas parece que sea aquella que está relacionada con el mercado del turismo o la explotación en el trabajo. Expulsión, detención indiscriminada y políticas de seguridad basadas en la militarización parecen ser la respuesta de los susodichos países industrializados a la crisis económica y social a la cual han contribuido a crear.

Hace pocos días fue aprobada lal “ley de seguridad”, a través de la cual el territorio del Estado italiano asumirá aún más el carácter de laboratorio a cielo abierto de la represión permanente. La entrada o permanencia en los CIE (Centros de identificación y expulsión) ha sido extendida de 2 a 6 meses, las rondas nazis han sido legalizadas, solo por citar algunos de los agravamientos represivos previstos en la nueva ley. Mientras tanto l@s pres@s de los CIE de Milán, Bologna y Gradisca d’Isonzo ya están protestando con una huelga de hambre.
Queremos volver fuera de Ponte Galeria porque en los CIE acaban las personas que han sido rastreadas por la calle mientras volvían a casa después de una jornada de trabajo mal pagado, mientras hacían la cola para renovar el permiso de residencia o mientras esperaban a un amigo para salir por la noche.

Cualquiera que proteste contra las brutales condiciones de vida impuestas por estos campos de concentración de la democracia (superpoblación, higiene inexistente, pscicofarmacos como instrumento para sedar las masas, agua racionada y la negación a cualquier asistencia) se encuentra que tiene que soportar violencias física y intimidaciones. Palizas y abusos por parte de la Cruz Roja (que gestiona el CIE de Ponte Galeria) son al orden del día y solo en los últimos tres meses se han registrado dos muertes: Salah Souidani, muerto después de que el personal sanitario le hubiera negado asistencia médica (y después de haber sufrido además una paliza por parte de la policía, según los testimonios de algunos reclusos) y Nabruka Mimuni, que estaba en Italia desde hacía treinta años y que, después de haber amenazado repetidamente en quitarse la vida, antes que ser repatriada, fue dejada a la suerte de su propio destino.

No es pensable que personas que han elegido dejar su propio país de origen, poniendo en riesgo su propia vida para construir un futuro mejor, o para escapar de un presente de opresión se encuentren siendo encarceladas en un campo de concentración del Estado.

La clandestinidad no es más que una condición impuesta por las políticas racistas, xenófobas, basadas en la explotación y en el chantaje continuo. Nosotros no nos dividimos en “italianos” o extranjeros, sinó que nos consideramos tod@s habitantes del mundo.

Libertad de movimiento para todas y todos.
Por el cierre de los Centros de Identificación y expulsión.
Contra una sociedad de recintos y de fronteras.

JUEVES 9 DE JULIO, DESDE LAS 16:30: CONCENTRACIÓN EN PONTE GALERIA:
MUSICA, VOCES, PALABRAS.

Traigamos toda nuestra creatividad, nuestra rabia y nuestra fuerza delante de esos muros, hagamos sentir a quien está recluso la solidaridad de tod@s aquell@s que ya no quieren tolerar la existencia de estos campos de concentración, ni las torturas ni los homicidios de Estado que quisieran ocultar dentro de ellos.
La quedada es el aparcamiento de la parada “Fiera di Roma” del tranvía hacía Fiumicino Aeroporto (via Gaetano Rolli Lorenzini angolo via Cesare Chiodi) La quedada para coger el tren es a las 16:00 en la estación Ostiense.

Compañer@s antirracistas

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THURSDAY THE 9TH OF JULY, 2009 FROM 16.30
PROTEST IN FRONT OF THE IDENTIFICATION AND EXPULSION CENTER (CIE)
AT PONTE GALERIA

In the days of the g8 summit we will be outside the walls of Ponte Galeria, while the so-called “great eight” will be hiding inside a military base to discuss about crises.
The governments of the world talk in favour of a free circulation of goods and capital, expecting to stop and control the flow of migration. At the same time the only ways that people have to move are those related to the tourist industry or labour exploitation.
Deportations, uncontrolled detentions and security politics characterised by militarization, seem to be the answer of the industrialised countries to the financial and social crisis that they in great part have created themselves.
A few days ago the so called "security act" (pacchetto sicuezza) was approved. Because of this law the territory of the Italian state will be characterised as an open air laboratory of permanent repression even more than before. The unauthorised entrance or staying on the Italian territory is becoming a crime. The maximum detention period inside the CIE is extended from 2 to 6 months. The racist squads are being legalised. This is just to mention a few of the repressive norms that are included in the new law. Meanwhile the inmates of the CIE in Milan, Bologna and Gradisca d'Isonzo are already protesting with an hunger strike.

We want to return to Ponte Galeria because behind the walls of the CIE there are people who have been arrested e.g. on their way home after a long day of underpaid labour, while standing in line to renew their residence permit or simply while waiting for a friend at a bus stop.
Whoever protests against the brutal living conditions imposed by these “democratic” concentration camps (Overcrowding, lack of hygiene, mind-bending medicines as instruments of mass sedation, lack of water and negation of any assistance) undergoes physical violence and intimidation. Beating-up and abuse from the police and the Red Cross (who manages the CIE at Ponte Galeria) are daily routine. The last three months two dead causalities have been registered: Salah Soudaini, dead after the sanitary staff refused to provide him with medical assistance (and after undergoing a police beating, according to the testimony of other inmates), and Nabruka Mimuni, who had been in Italy for 30 years and who repeatedly threatened to commit suicide if she was going to be repatriated, was left at the mercy of her destiny.

It is unthinkable that people who have decided to leave the country of their origin, often risking their life in an attempt to construct a better future or who flea from an oppressive situation, find themselves locked away in a concentration camp of the state.

Clandestinity is nothing but a condition imposed by racist and xenophobic politics based on exploitation and continuous blackmailing. We do not categorise ourselves in Italians or foreigners, but think of ourselves as people from the world.

Freedom of movement for everybody.
Shut down the Identification and Expulsion Centres.
Against the society of fences and borders.

THURSDAY 9TH OF JULY, FROM 16.30 PROTEST AT PONTE GALERIA:
MUSIC, VOICES, WORDS.

Let's bring our creativity, our anger and our strength in front of those walls. Let's make it possible for the people who are locked up to hear the solidarity of all those, which do not want to tolerate anymore the existence of these concentration camps. Nor do we want to tolerate the tortures and the state murders that the authorities are hiding from us.
We will meet at the car park of the train stop “Fiera di Roma” where the train to Fiumicino Airport stops (the corner between Via Gaetano Rolli Lorenzini and Via Cesare Chiodi). Meeting point at Ostiense station at 16.00 in order to take the train all together.

Antiracists

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JEUDI 9 JUILLET 2009, A PARTIR DE 16.30
RASSEMBLEMENT AU C.I.E. DE PONTE GALERIA


Pendant les jours dans lesquelles le G8 aura lieu, nous voulons aller dehors le mur du C.I.E. de Ponte Galeria, tandis que les prétendus “grands de la terre” se cachent à l’intérieur d’une caserne pour parler de la crise. Les gouvernements du monde acclament haut et fort la libre circulation des marchandise et des capitaux, avec la prétention de bloquer et de contrôler les flux migratoires, dans un monde où la seule possibilité de mouvement accordée aux gens semble être celle liée au marchet du tourisme ou à l’exploitation du travail. Repoussements, détentions indiscriminées et politiques sécuritaires de militarisation semblent être la réponse des pays dit industrialisés à la crise économique et sociale qu’ils ont contribué à créer.

Il y a quelques jours que le “paquet sécurité” a été définitivement approuvé et avec ce nouveau outil le territoire italien aura encore plus le caractère d’un laboratoire à ciel ouvert de la répression permanente. L’entrée ou la permanence “irrégulier” à son intérieur devient un délit, la durée de permanence dans les C.I.E. (Centre d’Identification et d’Expulsion) est comprise entre les 2 et les 6 mois, les rondes racistes sont légalisées, et ces sont seulement aucuns des nombreux durcissements prévus par la nouvelle loi. Pour le moment, les prisonnières et les prisonniers des C.I.E de Milan, Boulogne et Gradisca d’Isonzo protestent en conduisant une grève de la faim.

Nous voulons retourner à Ponte Galeria parce-que dans les C.I.E. se trouvent les personnes ratissées quand ils rentrent chez soi après une journée de travail souspayé, tandis qu’ils font la queue pour le renouvellement du permis de séjour, ou tandis qu’ils attendent des amis pour aller faire une promenade.
Qui proteste contre la brutalité des conditions de vie imposées par ces lager démocratiques (surpeuplement, manque d’hygiène, psycholeptiques utilisé comme sédatifs, eau rationnée et négation de chaque type d’assistance) reçoit violences physiques et intimidations. Raclées et abus par la police et la Croix Rouge Italienne (qui détienne la gestion du C.I.E. de Ponte Galeria) sont à l'ordre du jour.
Et seulement durant les trois derniers mois ont eu lieu deux morts: Salah Souidani, décedu après que le personnel sanitaire lui avait refusé l’assistance médicale (et après avoir subit une raclées par la police, selon les témoignages des autres prisonniers), et Nabruka Mimuni, qui habitait en Italie depuis trente ans et, après nombreuse menaces de se suicider plutôt qu’être déportée vers son pays d’origine, a été abandonnée à son destin.

Ce n’est pas possible que qui a décidé de quitter son pays d’origine, en risquant souvent sa vie pour se construire un futur meilleur ou pour échapper d’un présent d’oppression, soit incarcéré dans un lager d’État.

La clandestinité n’est qu’une condition imposée par les politiques racistes, xénophobes, fondées sur l’exploitation et le chantages. On ne se partage pas entre “italiens” et “étrangers”, nous sommes toutes et tous habitants du monde.

Liberté de mouvement pour toutes et tous
Fermeture immédiate des Centres d’Identification et d’Expulsion
Contre la société des frontières et des clôture


JEUDI 9 JUILLET, A PARTIRE DE 16.30 RASSEMBLEMENT A PONTE GALERIA
MUSIQUE, VOIX, PAROLES

Rendez-vous à 16 heures à la gare Ostiense pour prendre toutes et tous ensemble le train (direction aéroport de Fiumicino).

Portons-nous notre créativité, notre rage et notre force devant ce mur pour transmettre à ceux qu’y sont incarceré(e)s la solidarité de toutes et tous ceux qui ne veulent plus tolérer l’existence de ces lager, ni les tortures et les homicides d’Ètat qu’ils voudraient dissimuler à l’interieur d’eux.

Le rassemblement aura lieu sur le parking de l’arrêt « Fiera di Roma » (à l’angle des rues Gaetano Rolli Lorenzi et Cesare Chiodi).

http://www.sguardisulledifferenze.org

domenica 5 luglio 2009

Siena, Venerdì 10 luglio

Ore 10,30-13,30
Tavola rotonda La violenza sulle donne nel
discorso pubblico tra stereotipi mediali e
strumentalizzazioni politiche
Intervengono
Laura Eduati (giornalista di “Liberazione”)
Barbara Spinelli (responsabile del gruppo di ricerca
“Generi e famiglie” dell’Associazione Nazionale Giuristi
Democratici)
Fabrizio Tonello (Università di Padova)
Angela Zaro (giornalista di “L’Altro”)
Coordina
Elisa Giomi, Università di Siena
Dipartimento di Scienze della Comunicazione
dell’Università di Siena – Via Roma 56

Ore 17,00-22,00
Parole diverse, violenze comuni
Incontro con Norma Berti: il vissuto delle detenute
politiche durante la dittatura argentina
“Smettila di camminarmi addosso”, incontro con
Claudia Priano; conversa con l’autrice Lucinda Spera
(Consigliera per le Pari Opportunità dell’Università per
Stranieri di Siena)
Letture e musica al femminile con il Siena Jazz
Auditorium dell’Università per Stranieri di Siena
Piazza Rosselli 27

Ore 21,30
Trittico femminile
Sequenza orante
Intermezzo – Poesie d’amore di Anne Sexton
Penelope
Di e con Rosaria Lo Russo
Giardino di Villa Rubini Manenti – Via degli Umiliati 12
(In caso di pioggia lo spettacolo si terrà presso la Limonaia)

venerdì 3 luglio 2009

lunedì 29 giugno 2009

Perle di città, 27 giugno, giardino dei ciliegi

VOLA di Geraldina Colotti


Vola

Viola

ridendo

ai bassifondi

L’Ira feconda

tira la fionda
















Perle di città, 26 giugno piazza indipendenza: preparazione





Perle di città, 26 giugno piazza indipendenza: Beppe Rosso









Tiziana Lucattini legge Cara senatrica Merlin, lettere dalle case chiuse e Calderon

http://www.ruotalibera.eu/sito/index.php?page=Teatro

Perle di città, 26 giugno piazza indipendenza: Tiziana Lucattini legge Cara senatrica Merlin, lettere dalle case chiuse e Calderon


Perle di città, 26 giugno piazza indipendenza: Flavia Pelliccia legge Kalashnikov di Emilio Quadrelli


Perle di città, 26 giugno Piazza Indipendenza: Valentina Bini legge Ritratto a tinte forti di Carla Corso