è un percorso d’analisi critica sul mondo del sesso al lavoro, che privilegia in particolare il suo intimo legame con quell’insieme di politiche ascrivibili al modello securitario. A partire dal rilievo della costruzione mediatica di emergenze sociali, il tema che affrontiamo risulta esemplare nelle sue molte conseguenze: il controllo sui corpi e sulla libera scelta, la stigmatizzazione dei mondi marginali, l’appello alla morale pubblica, la strumentalizzazione del senso di insicurezza della cittadinanza, l’indifferenza verso una reale presa in carico dei soggetti sociali coinvolti. La natura prismatica della prostituzione moltiplica continuamente gli argomenti di discussione, gli spunti interpretativi, le suggestioni provenienti da ambiti eterogenei: dal fenomeno della tratta all’industria pornografica, dalla prostituzione di strada a quella d’élite, dalla schizofrenia dell’immaginario pubblicitario relativo alla sessualità ai nuovi modelli lavorativi e consumistici, dal dibattito teorico prodotto dai femminismi a partire dagli anni ‘70 alle posizioni delle associazioni. La messa in luce delle strategie retoriche e normative sottese agli attuali provvedimenti legislativi è mossa dallo sguardo eminentemente politico con cui ci proponiamo affrontiamo il tema, nell’urgenza di interrogarsi sulle strategie securitarie nella loro particolare declinazione cittadina che, anche attraverso ordinanze d’emergenza apparentemente indirizzate a combattere l'insicurezza, irrompono nella vita quotidiana estendendo sempre maggiormente la paura di condividere gli spazi comuni.
Le donne in una situazione trasgressiva sono viste come malvagie o decadute: malvagie se trasgressive per proprio interesse (il che è visto in sé come trasgressivo per le donne), decadute se preda di un malevolo disegno maschile. Che siano agenti o vittime della trasgressione, queste donne vengono distinte dalle donne rispettabili attraverso il marchio di “puttana”. La divisione delle donne in rispettabili e non può risultare la funzione politica più insidiosa del marchio di puttana; non soltanto isola in maniera effettiva le prostitute dalle altre donne e isola le altre donne dalle “sole combattenti di strada che noi abbiamo” (Atkinson, 1974/75), ma rende anche tutta una serie di libertà incompatibili, per una donna, con la nozione di legittimità. E’ significativo che le donne decadute siano punite esattamente per l’autonomia sessuale, la mobilità spaziale, l’iniziativa economica e la presa di rischio fisico, tutte cose che conferiscono rispetto agli uomini dabbene. Avanzo l’idea che il marchio di puttana, sebbene faccia riferimento esplicito alle prostitute, eserciti controllo implicito su tutte le donne. Dal momento in cui una prostituta incarna per definizione questo marchio ed è dunque colpevole, le altre donne sono sospettate (“dov’eri?”) e accusate (“Razza di puttana!”). Ciò che implica l’accusa di puttana è il crimine di impudicizia. Il marchio di puttana è uno strumento pronto d’attacco sessista contro le donne giudicate troppo autonome, che si tratti di autonomia nel difendersi o semplicemente nell'esprimersi: tali le donne che si sollevano apertamente contro gli uomini che le maltrattano, le lesbiche esplicite, le donne che manifestano per il diritto all’aborto, le resistenti ai regimi di dittatura, le prostitute di strada, le donne mal velate o non velate del tutto, persino le donne dal seno troppo prorompente o dai piedi troppo grandi; questo stigma ha buon gioco anche nel tenere in sospetto le vedove, le donne picchiate, le ragazze madri, le donne che viaggiano – o rientrano a casa - sole, le donne ricche e indipendenti, quelle che parlano una lingua straniera, le donne prese di mira da ingiurie razziste e quelle che oltrepassano la "barriera del colore". Strumento d’attacco già pronto, il marchio di puttana può essere utilizzato contro qualsiasi individuo (o gruppo di donne) che evade o meglio contesta il modello del buon diritto degli uomini - qualsiasi cosa ella faccia, è condannabile -. Non è raro che le donne non prostitute lottino contro il marchio di puttana rifiutando l’identificazione alle prostitute: “non sono UNA PUTTANA”. Questa resistenza è vana, perché il privilegio di definirsi da sé non è accordato agli accusati e alle accusate, e costituisce una negazione di sé, perché dissociarsi dall’etichetta di ‘puttana’ significa per le donne rinunciare a delle libertà riservate agli uomini. Le militanti per i diritti delle prostitute, diffidando dei costi della legittimità, tentano di disattivare l’ustione del marchio di puttana assumendo senza vergogna l’insulto.
Lettori fissi
NON CHIEDIAMO SICUREZZA, RIVENDICHIAMO AUTONOMIA!
Parlare della violenza sulle donne oggi non può prescindere dall’analizzare il problema della sicurezza. I continui appelli e richiami alla categoria di sicurezza rappresentano misure strategiche che agitano lo spettro del pericolo e creano un senso di insicurezza diffuso proprio in quanto ossessivamente ribadito. Tale strategia si nutre e produce figure di devianza e luoghi sordidi, funzionali ad un progetto di marginalizzazione e criminalizzazione: la puttana e la strada, il migrante e i luoghi di transito, il bullo e i corridoi e le aule vuoti della scuola. Tra crisi e sicurezza c’è lo stesso rapporto che c’è tra controllo e sfruttamento: la logica del sacrificio che la crisi impone può affermarsi solo in un contesto dove la tonalità emotiva prevalente diventa la paura. La stretta securitaria che vediamo affermarsi in Italia investe il corpo delle donne attraverso l’utilizzo strumentale della loro presunta incapacità di difendersi. La “figura” della donna è relegata di conseguenza a un ruolo di subalternità e vittimità. Questa operazione produce una frantumazione degradante del tessuto sociale e restringe lo spazio pubblico dell'agibilità politica, sfigurandolo e svuotandolo delle sue contraddizioni vive, ridotte strumentalmente a “problemi di ordine pubblico”. L’esempio del Ddl Carfagna è emblematico: lo sfruttamento della prostituzione è il pretesto per attivare la caccia alla prostituta, per accentuare la licenza d’azione della polizia - all’insegna dell’arbitrarietà più estrema - per cavalcare derive moralistiche e ipocrite che spostano il problema dalla strada all’ambito domestico. Tale intervento normativo tratta la prostituta come “soggetto passivo” di dispositivi di controllo, eludendo persino l’ambito di soggettivazione giuridica inseparabile da qualsiasi azione legislativa. Questo paradosso svela la componente ideologica della strategia securitaria: l’obiettivo è quello di sedare il conflitto, relegandolo in ambiti di non visibilità, l’effetto è quello di una insorgenza, tanto più frammentaria quanto più acuta, del conflitto stesso. Il pericolo non è per strada, non è sventato dai soldati a ogni angolo, non è rappresentato dall'oscenità di una minigonna: il pericolo è nello smantellamento dello stato sociale, nello scaricamento verso il basso dei costi (sulle migranti e su altre precarie) e nella qualità dei servizi e della formazione, nella progressiva privatizzazione dei servizi (dalla scuola alla sanità), nella compressione delle forme di vita, in nome di un paradigma sociale repressivo che fa ancora leva su una riproposizione classica del modello familistico. Il processo irreversibile dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro non vedrà un arretramento. La precarietà estende l’assenza di garanzie e la discontinuità di reddito a tutte le attuali figure lavorative: la gestione del tempo di lavoro e di vita torna in primo piano. In quanto donne, ci sentiamo un bersaglio sensibile di questo furto di futuro, libertà e garanzie. Non vogliamo rispondere all’appello al sacrificio, non vogliamo delegare a nessuno la decisione sul nostro presente e sul nostro futuro, non vogliamo subire misure di controllo sempre più pervasive e vessatorie. Rilanciamo l’avanzamento del piano di lotta e del percorso politico che continuerà a vederci soggetti attivi e creativi, corpo vivo di questo movimento. 22 novembre 2008, Manifestazione nazionale contro la violenza contro le donne.
«Durante l'interminabile traversata, mi chiedevo se anch'io sarei diventata una delle vittime. La mia fiducia nel movimento era sopraffatta dall'angoscioso spettro di S. Quentin, la fortezza degli orrori che incombeva sulla baia di San Francisco come aggrappata agli estremi lembi della civiltà. Pensavo ad Aaron Henry, la vittima più recente stroncata dal gas nella camera della morte di San Quentin. Il giorno dell'esecuzione, sua madre aveva implorato un'udienza dal governatore. Ronald Reagan non aveva avuto pietà di lei: non si era neppure curato di prendere atto della sua presenza. Seduta sull'aereo, pensavo a lei e a tutte le madri Nere come lei. Volammo dodici ore per andare da un capo all'altro del paese. Dodici ore, per riandare col pensiero da un capo all'altro della mia vita. Pensai alla mia famiglia. Che ne sarebbe stato di mia madre, di mio padre, di Reggie, Benny, Fania? Era passato tanto tempo di giorni in cui eravamo tutti insieme: a casa, sicuri, al riparo. Ma erano esistiti davvero giorni simili? Non era forse sempre esistita la gente dell'aereo, che ci teneva in pugno con gli occhi pieni di odio, devastando la nostra vita?» Angela Davis, Autobiografia
king kong girl
«Sono più vicina a King Kong che a Kate Moss, come tipa. Sono il genere di donna che gli uomini non sposano, con cui non fanno figli, parlo dalla mia posizione di donna sempre troppo in tutto, troppo aggressiva, troppo rumorosa, troppo brutale, troppo irsuta, troppo virile, mi dicono (...) E’ da questa posizione che scrivo, in quanto donna non seducente ma ambiziosa, attratta dal denaro che mi guadagno da sola, attratta dal potere, di fare e di rifiutare, attratta dal vivere la città più che dallo stare a casa.» Virginie Despentes, King Kong Girl
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